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venerdì 30 dicembre 2016

#libri: Accabadora, Michela Murgia



"Accabadora" di Michela Murgia è, allo stesso tempo, un inno alla vita, ma anche un omaggio alla morte, vista non come creatura malevola, pronta a recidere crudelmente i legami tra gli esseri umani, ma come un fenomeno naturale, spontaneo, che qualche volta va aiutato con un pizzico di audacia e tanta umanità, ingredienti fondamentali comuni a tutte le grandi, terribili imprese.
   Sì, perché l'altera e forte Bonaria Urrai di giorno ha scelto di fare la sarta, mestiere rispettabile che le permette di guadagnarsi il pane, ma la sera, quando c'è bisogno di lei, non esita a calarsi nei panni dell'Accabadora del paesino sardo di Soreni, colei che pone fine alla vita, ma soprattutto alla sofferenza altrui, aiutando i suoi compaesani a oltrepassare quel confine che si frappone fra l'agonia e la pace eterna.



Il mito della dolce morte, di antica derivazione, viene traslato nella suggestiva e ancestrale Sardegna più povera, quella delle tradizioni, quella dei contadini e dei pastori, quella più autentica delle convenzioni sociali e delle leggi non scritte, ma marchiate a fuoco sulla pelle dei suoi abitanti.

Dal canto opposto, ma collegata da un saldo filo che non può spezzarsi, c'è la vita, quella di una bimba divenuta presto ragazza, Maria, conosciuta da tutti perché "nata due volte" ("Fillus de anima, è così che li chiamano i bambini generati due volte, dalla povertà di una donna e dalla sterilità di un'altra"), una giovane rifiutata da una famiglia troppo povera e numerosa, una giovane pronta a fare a cazzotti con un destino che sembra già indissolubilmente segnato, forte e fragile al contempo, dotata di ali per spiccare il volo, ma ancor più di radici che la tengono ancorata alla sua terra, alla quale farà sempre ritorno (ma forse, non se n'è mai andata...).

Michela Murgia sceglie di raccontare un tema quanto mai attuale, quello della morte assistita, dell'eutanasia, un tema che in Italia è, per certi versi, ancora un tabù (ricordiamo episodi come lo scandalo sollevato dalla morte "assistita" di Piergiorgio Welby il 20 dicembre 2006).

In questo bellissimo romanzo, la Murgia affronta temi scomodi, difficili da digerire, e lo fa con uno stile perfetto, personale, emozionante ma senza mai cedere al pathos o agli eccessi, pur prestando la propria voce a personaggi che appartengono, essenzialmente, ad un popolo sanguigno, semplice, autentico.
   Infatti lo stile, sebbene infarcito di termini della sua "lingua " madre, il dialetto sardo della zona di Cabras, è cristallino, i personaggi incredibilmente ben caratterizzati, i tessuti sociali percepibili, fondati su valori che a noi sembrano sorpassati, ma che in realtà mantengono integra tutta la loro forza espressiva e autoritaria.

Michela Murgia non prende mai posizione sulla civiltà contadina, si limita a riportarci, con grande maestria, un pezzo di storia italiana, quella degli anni '50, e di una cultura a noi continentali del tutto "straniera", emozionando (ed emozionandosi) ad ogni pagina.

lunedì 26 dicembre 2016

#libri: I delitti di Borgoglio, Giovanni Barlocco


Il mostro di Bargagli, un caso irrisolto che ha macchiato la tranquillità dell'entroterra ligure nonché riempito per lungo tempo tutte le pagine di cronaca locale e nazionale, fornisce lo spunto per un romanzo di fantasia, un giallo perfettamente congegnato, I delitti di Borgoglio, del genovese Giovanni Barlocco. 

In quest'opera Borgoglio, un paesino dell’entroterra genovese a pochi chilometri dalle acque mosse del mar Ligure, diventa il luogo dove, tra gli anni Settanta e Ottanta, vengono compiuti dei delitti efferati che sembrano collegati alla Seconda Guerra Mondiale.
   Tocca al commissario Marcello Cattaneo dipanare questa matassa così intricata con l'aiuto di Paolo Dellepiane, l’immancabile amico cronista, scavezzacollo e ironico al punto giusto.

Questo interessante romanzo a tinte noir ben si colloca nell’ormai consolidata tradizione del giallo ligure, che negli ultimi anni ha dimostrato maturità e consapevolezza sempre crescenti, anche grazie alla capacità di costruire trame intricate con tanto di colpi di scena, lineari e godibili fino all'ultima pagina.

In quest'opera l’entroterra genovese è quello autentico, abitato soprattutto da anziani, un territorio ostile che appare pieno di zone in ombra, con i suoi abitanti spesso scontrosi che si chiudono a bozzolo di fronte alle domande troppo dirette.
   Diversi sono i giovani – Marcello, Paolo, Michela e Laura - che fanno parte di un mondo globalizzato pur mantenendo radici fortemente ancorate alle proprie origini.

Affascinanti e protagoniste anche le descrizioni del paesaggio: la tensione si stempera tra le rocce a picco che rosolano al sole, la verticalità dei dirupi, gli odori e gli umori del bosco, gli alberi di fico e i castagni, i tramonti e le albe sul mare che diventa elemento primario sullo sfondo della narrazione.

Per quanto riguarda i personaggi, il protagonista assoluto di questo gustoso libro è proprio il nostro eroe, Marcello Cattaneo, un poliziotto decisamente sui generis, commissario, cuoco, poeta, motociclista, ex pallanuotista, intransigente e contraddittorio, innamorato, talvolta insicuro, sicuramente profondamente umano.
   La sua amata Genova lo riaccoglierà nel suo seno salato e poco accessibile per metterlo subito alla prova con una serie di delitti apparentemente indecifrabili, che anche il lettore sentirà il bisogno e la voglia di risolvere una volta per tutte.

Ulteriore nota di pregio, le parti trascritte in dialetto genovese (tradotte in italiano nelle note finali, per i profani di questa melodiosa lingua) che, se da un lato possono risultare inizialmente ostiche per il lettore non della zona, dall'altro aggiungono folklore e fascino, proprio come accade per il dialetto siciliano di Montalbano. 

Insomma, nel complesso un giallo piacevole, dalla lettura scorrevole e lineare, dove non mancano i colpi di scena né parti più divertenti, allegre e scanzonate: leggendo le pagine di questo volume vi sembrerà davvero di immergervi negli umori tipici di un carruggio genovese, di addentare un pezzo di focaccia accompagnata da un buon cappuccino, di aspirare a pieni polmoni la brezza marina che spira da porto portando con sé un fascino immemore e antico, con il plus di dover risolvere un enigma cesellato con cura da un autore dalla penna sapiente.
   Assolutamente consigliato. 

venerdì 23 dicembre 2016

BUON NATALE!!!

Ho pensato a tanti modi per augurarvi un buon Natale, ma poi ho preferito cedere il posto a chi sapeva giocare con le parole mooolto meglio di me.
   Gianni Rodari aveva un dono: saper comunicare emozioni grandi attraverso piccole cose... una bambola di pezza, un ramo di agrifoglio, un fiocco di neve.
   Perché in fondo il Natale è proprio questo: un sorriso, una carezza, un dono semplice ma fatto col cuore.
  
 Buon Natale a tutti, grandi e piccini.


Il mago di Natale di Gianni Rodari

S'io fossi il mago di Natale
farei spuntare un albero di Natale
in ogni casa, in ogni appartamento
dalle piastrelle del pavimento,
ma non l'alberello finto,
di plastica, dipinto
che vendono adesso all'Upim:
un vero abete, un pino di montagna,
con un po' di vento vero
impigliato tra i rami,
che mandi profumo di resina
in tutte le camere,
e sui rami i magici frutti: regali per tutti.

Poi con la mia bacchetta me ne andrei
a fare magie
per tutte le vie.

In via Nazionale
farei crescere un albero di Natale
carico di bambole
d'ogni qualità,
che chiudono gli occhi
e chiamano papà,
camminano da sole,
ballano il rock an'roll
e fanno le capriole.
Chi le vuole, le prende:
gratis, s'intende.

In piazza San Cosimato
faccio crescere l'albero
del cioccolato;
in via del Tritone
l'albero del panettone
in viale Buozzi
l'albero dei maritozzi,
e in largo di Santa Susanna
quello dei maritozzi con la panna.

Continuiamo la passeggiata?
La magia è appena cominciata:
dobbiamo scegliere il posto
all'albero dei trenini:
va bene piazza Mazzini?

Quello degli aeroplani
lo faccio in via dei Campani.

Ogni strada avrà un albero speciale
e il giorno di Natale
i bimbi faranno
il giro di Roma
a prendersi quel che vorranno.

Per ogni giocattolo
colto dal suo ramo
ne spunterà un altro
dello stesso modello
o anche più bello.

Per i grandi invece ci sarà
magari in via Condotti
l'albero delle scarpe e dei cappotti.
Tutto questo farei se fossi un mago.

Però non lo sono
che posso fare?

Non ho che auguri da regalare:
di auguri ne ho tanti,
scegliete quelli che volete,
prendeteli tutti quanti.

lunedì 19 dicembre 2016

#cinema: Animali fantastici e dove trovarli, David Yates

La magia, specialmente quando ti ci imbatti in giovane età, ti rimane dentro a lungo, latente negli anni, anche quando piccino non lo sei più.
   A me è ciò che è accaduto con il mondo di Harry Potter, ma soprattutto con la penna di J.K. Rowling, una delle poche autrici contemporanee capaci di creare, con semplicità e freschezza, un universo magico parallelo, estremamente concreto, che ha conquistato milioni di ragazzi della mia generazione in tutto il mondo.


E, se ho amato follemente la saga del maghetto con la cicatrice, sia letteraria che cinematografica, ho amato altrettanto Animali fantastici e dove trovarli, perché la Rowling anche stavolta ce l’ha fatta.  
   Infatti è riuscita a distaccarsi dalla scia (che sarebbe stata troppo semplice) di Potter pur mantenendo indispensabili punti di contatto, ha dato vita a personaggi completamente nuovi, costruiti da zero, ma con una profondità psicologica davvero vincente, immersi in quell'atmosfera meravigliosa che abbiamo imparato a conoscere a menadito.

Rowling, che è anche sceneggiatrice della pellicola, riesce a far calare lo spettatore nel mondo magico newyorchese, fatto di nuovi luoghi, oggetti e personaggi bizzarri, stravaganti, ma perfettamente inseriti nel contesto. Per non parlare delle creature magiche, ovviamente.

Alla regia troviamo David Yates, che inserisce il suo tratto distintivo, lo humour, all'interno della narrazione, rendendola fluida e gradevole, pur mantenendo sempre intatti i temi cari all’autrice, come la violenza sui minori e la discriminazione razziale.


La sceneggiatura è brillante, i protagonisti fantastici: un Eddie Redmayne molto preciso nella caratterizzazione del personaggio di Newt Scamander, che si apre lentamente con lo svolgersi del film, un grandissimo è Dan Fogler, nella parte del babbano Kowalski, che non solo fa dannatamente ridere ma rappresenta lo spettatore stesso, con il suo genuino stupore alla vista del mondo magico e la sua tristezza all’idea che le porte di tutto ciò non ci verranno mai aperte.

Un discorso a parte lo meritano gli effetti speciali. Le creature magiche presenti nel film sono riprodotte con un realismo incredibile e un’imponente bellezza che non possono lasciare indifferenti.

Animali fantastici e dove trovarli avrebbe potuto giocare facile sull’effetto nostalgia, eppure i rimandi a Hogwarts e dintorni si contano sulle dita di una mano, e io ne sono immensamente felice. 



lunedì 12 dicembre 2016

#libri: Il seggio vacante, J.K. Rowling


Pagford è un piccolo ecosistema perfetto: villette a schiera linde e imbellettate, ricche signore borghesi alle prese con il té delle cinque, botteghe a conduzione familiare, famiglie tradizionali; la polvere, rigorosamente, sotto i tappeti di un'intera comunità.
   Ma basta allontanarsi di qualche passo dal centro della cittadina per imbattersi in una periferia difficile, ben più reale, fatta di adolescenti in balia delle droghe più disparate, fatta di prostituzione, di violenza, di sporcizia, di cazzotti e di lacci emostatici, ma anche di piccoli, insperati gesti di solidarietà.

Pagford potrebbe essere Milano, New York, Tokyo, è lo specchio di un qualsiasi spaccato sociale contemporaneo: e J.K. Rowling, nota ai più “semplicemente” come la “mamma di Harry Potter”, è maestra nel dipingere le sfumature dei personaggi e dei luoghi che animano questo pittoresco e disincantato affresco umano.

Il seggio vacante è, infatti, un'opera estremamente poliedrica: romanzo corale e profondamente analitico/descrittivo dei mutamenti sociali degli ultimi anni, romanzo di formazione per la continua evoluzione psicologica dei suoi personaggi principali, romanzo dal finale affilato, durissimo, che sceglie deliberatamente di uccidere il tanto atteso lieto fine in favore di un'iniezione di autenticità quasi dolorosa, ma necessaria.

La “casual vacancy” del titolo originale è quella di Barry Fairbrother, consigliere comunale sposato, quattro figli, appena quarantenne, amato - ma al tempo stesso profondamente odiato – dai suoi concittadini, che stramazzerà a terra alla terza pagina, in preda a un aneurisma cerebrale descritto con una crudezza allucinante.
   Da qui si dipanano cinquecento pagine in grado di non annoiare, mai:  è proprio questo il più grande dono di Rowling, in questo volume come nella saga fantasy giovanile più amata al mondo, la capacità di far vivere sulla carta stampata i suoi personaggi con incredibile veridicità, delineandone ogni pensiero, ogni sensazione, ogni azione, intessuta con accortezza e perfettamente inserita nei vari contesti e vissuti.

Il lettore, anche grazie allo stile fluido e immediato, affidato a numerosi dialoghi, riesce ad immedesimarsi nella psiche di ciascun protagonista, trovando continue affinità con il proprio mondo, contaminato dal bisogno di creare continuamente trincee, confini, limiti e differenze, apparentemente inconciliabili. 

"Questo articolo è apparso su rivista Paper Street. Per gentile concessione."
http://www.paperstreet.it/cs/leggi/il-seggio-vacante-jk-rowling.html

giovedì 8 dicembre 2016

#cinema: Dalla cronaca alla pellicola... il passo è breve

Che il cinema attinga, fin dai suoi albori, dalle storie narrate tra le pagine di romanzi e volumi di varia natura è, ormai, cosa assolutamente nota; ma, forse, un po' meno noto è il fatto che moltissimi film siano nati (o perlomeno abbiano ricevuto una buona dose di ispirazione) da articoli di giornale e da fatti di cronaca e costume raccolti tra le pagine consumate di quotidiani provenienti da ogni parte del mondo.
   Fatti tragici, crudi, drammatici o, perché no, storie positive, in grado di portare speranza a chi le legge (o guarda, scegliete voi).

Se volete scoprire i 5 migliori film nati dal profumo della carta appena stampata, allora vi basta un click qui ;) 

"Questo articolo è apparso su http://www.themacguffin.it/. Per gentile concessione".

martedì 6 dicembre 2016

#libri: Introspezioni, Giuseppe Caliendi

Ecco con un nuovo appuntamento dedicato agli scrittori esordienti, nato in collaborazione con il sito http://www.recensioniperesordienti.it/ per proporvi recensioni, focus e interviste agli autori che si affacciano per la prima volta nel variegato mondo letterario che noi lettori famelici tanto amiamo.

Per chi di voi ancora non lo conoscesse, provvedete subito, mi raccomando: RecensioniPerEsordienti.it è un portale online nato dalla passione di un gruppo di ragazzi per la lettura, la scrittura e la narrativa, un team che ha tanta voglia di mettersi in gioco e diffondere la cultura nel web, un team ben consolidato di cui faccio parte anch'io, con grande piacere.

E allora proseguiamo con la nostra avventurosa partnership con la recensione di una giovane autrice che promette decisamente bene: quest'oggi parliamo di "Introspezioni" di Giuseppe Caliendi: buona lettura!


Una classe di alunni e professori “decisamente scalmanati”, la cronaca di un insolito viaggio in treno, una morte efferata e apparentemente senza senso, un convegno importante dai risvolti improbabili...       Questi sono solo alcuni degli spunti che danno origine agli otto racconti presenti all'interno della breve silloge di Giuseppe Calendi, Introspezioni, una raccolta originale ma che non soddisfa fino in fondo il lettore.

Infatti, se risulta assolutamente vincente l'idea di trarre ispirazione da fatti della realtà quotidiana, la trama risulta invece inconsistente, a tratti fumosa, un limite che impedisce di godere anche dei numerosi momenti di ironia che arricchiscono la narrazione.

Manca l'emozione, il gusto della scoperta, e questo rende fragile l'intero apparato narrativo, un vero peccato considerando, invece, la qualità dello stile: la prosa è ben scritta e articolata, ricca di dettagli gustosi e ben assortiti, e allo stesso modo i personaggi, tratteggiati con fantasia e sapienza descrittiva, come del resto le numerose situazioni che ci vengono proposte.

Insomma, è chiaro il tentativo di totale stravolgimento della visuale quotidiana, sicuramente percepibile il ribaltamento del concetto di normalità che pervade l'intero lavoro dell’autore, desideroso di rompere con un gesto deciso quella coltre rassicurante che poniamo di fronte alla nostra abitudinaria consuetudine, ma l'effetto finale risulta poco riuscito: davanti ai racconti si resta basiti, ne esce difficile la comprensione, il caos la fa da padrone rischiando di allontanare il lettore piuttosto che incatenarlo, pur con sacrosanta stravaganza e originalità. 

venerdì 2 dicembre 2016

#libri: Il catino di zinco, Margaret Mazzantini


La vecchiaia è una brutta bestia: sì, perché la vecchiaia è fatta di carne, sangue, umori (e malumori), debolezza, rabbia, frustrazione, sensazioni discordanti fra loro e limiti invalicabili che, giorno dopo giorno, aumentano esponenzialmente.
  Ed è ciò che accade anche alla protagonista de Il catino di Zinco, Antenora, donna d'altri tempi, matriarca che si impone, senza mezzi termini, nella vita della sua progenie rifiutandosi di subire passivamente il decorso della sua lunga vita.

Una piccola eroina in un piccolo mondo arcaico, ancestrale, confinata tra le pareti domestiche, ma non per questo meno attenta a tutto quel che le accade intorno; energica e impassibile nel dispensare valori netti, talvolta semplicistici, sentimenti forti e, a tratti, ossessivi, elementi che le permettono  di affrontare, quasi incolume, esperienze traumatiche come la guerra, il fascismo, il dopoguerra e tutti i suoi strascichi, senza mai perdersi d'animo.

Il pretesto per raccontare la sua storia sarà proprio la sua morte, avvenuta in un gelido mattino d'inverno, brusco come Antenora, e narratrice d'eccezione diventerà l'amata/odiata nipote, più simile alla nonna di quanto voglia ammettere.

Il catino di zinco è il romanzo d'esordio di Margaret Mazzantini, un romanzo che si distacca in maniera abbastanza evidente da quella che sarà la sua produzione successiva, specialmente per quanto riguarda lo stile: i preziosismi linguistici e le ricercatezze lessicali la fanno da padrone all'interno di una narrazione ricca ma comunque fluida, affascinante, che eleva una storia quotidiana a letteratura a tutti gli effetti. 

Superbo, all'interno del settimo capitolo, il flusso di coscienza, lo “stream of consciousness” di sapore joyciano che nonna Antenora, con humour, sarcasmo e un pizzico di acidità q.b., regala al suo lettore riflettendo su come vanno “le cose della vita”. 

Nel complesso, si tratta certamente di un romanzo di non facile lettura, ma nell'accezione più positiva del termine: Mazzantini è cruda, dura, non lascia nulla all'immaginazione, ci mostra vette liriche altissime ma anche il rovescio della medaglia, le piccole miserie umane che accomunano la nostra specie, senza mezzi termini.

E Mazzantini, oltre a essere un astro fulgido della letteratura nostrana (e non solo), mostra anche una buona dose di ironia: la scelta millimetricamente curata di termini all'apparenza astrusi avrà costretto molti lettori, anche senza un'ammissione formale, a riprendere in mano un bel vocabolario della lingua italiana...

Questo articolo è apparso su Paper Street in data . Per gentile concessione".