Ebbene sì, dopo mille indecisioni, tentennamenti, difficoltà di organizzazione e dubbi amletici, anch'io sono approdata ad
Expo Milano 2015.
Devo dire che, fin dal principio, ho nutrito qualche dubbio sul fatto di recarmici o meno, forse influenzata dalle continue polemiche e dagli scandali avvenuti durante le fasi di allestimento, che mi hanno profondamente nauseata.
L'occasione per riemergere dalle nebbie di degrado e ignoranza che avvolgono il nostro Paese, sprecata e insozzata dalla corruzione di chi aveva come unico compito quello di mostrare al mondo la bellezza della propria terra, peraltro dietro un già lauto pagamento.
Vabbé, polemiche a parte, ho deciso comunque di affrontare l'epica impresa in compagnia di un gruppo di miei prodi: fidanzato e tre carissimi amici, tutti armati di pazienza ed entusiasmo q.b.
Partendo da Serravalle Scrivia in auto, parcheggiando a Famagosta, cambiando due metro, per un totale di un paio d'ore circa, devo dire che, della dose di pazienza iniziale, un quarto se n'era già andato, ma ho un carattere pessimo, non fateci caso.
Arrivata al mezzanino della metro di
Rho, capatina al centro accrediti stampa, dove uno scazzatissimo impiegato mi scatta una (
orribile) foto a tradimento e mi prepara un tesserino delle dimensioni di una pizza quattro stagioni: comodo, quando al collo hai già sciarpa e reflex da un paio di chili, e rischi il soffocamento da un momento all'altro. Ma anche questo ci sta, non facciamoci scoraggiare.
Proseguiamo ulteriormente e arriviamo alla coda per entrare, chilometrica ma sopportabile, d'altronde la giornata deve ancora iniziare; a proposito, anche il tempo ce l'ha messa tutta per infastidire la nostra giovane combriccola di turisti d'assalto, con freddo polare per i primi di ottobre, pioggerellina e un leggero vento, molto british ma soprattutto veramente piacevole, come piacevole è stata soprattutto l'ebbrezza del rischio di farsi cavare gli occhi dai distratti vicini di ombrello.
Una volta passati ai metal detector (
stranamente non ho fatto suonare nulla), si entra finalmente all'interno di
Expo: da lì, il caos.
Gente a destra, a sinistra, ovunque, e io odio i posti troppo affollati. Dopo 30 secondi mi viene già voglia di fare dietrofront e tornarmene nel mio eremo piemontese.
Ma no, è proprio quando il gioco si fa duro che i duri iniziano a giocare.
Allora prendiamo una decisione importante, all'unisono: visto che non ce la possiamo fare a sopportare snervanti code già al mattino, appena entrati, perché non girare tutti quei padiglioni che si ergono in mezzo all'oblio collettivo, delle (piccole, e un po' sfigatine) cattedrali nel deserto?
Abbiamo così visitato tutti i
cluster della sezione
Bio Mediterraneo (Egitto, Libano, Grecia, Serbia, Tunisia, Montenegro, Albania, Algeria, Malta e, ditemi voi cosa c'entra,
San Marino), luoghi che esercitano su di me un fascino ancestrale, ma che mi hanno dato un'impressione di desolazione cocente: banchetti in stile fiera con tanto di venditore insistente annesso, cammello in pura plastica all'interno, pseudo sarcofagi egiziani, la fiera del kitsch.
Almeno affoghiamo la delusione nel cibo:
cucina libanese, buona, per carità, peccato che io non digerisca il prezzemolo crudo, e che non ami la menta, ma la prossima volta mi documento meglio sull'arte culinaria libanese,
mea culpa.
A donarmi nuovamente il sorriso ci pensa comunque una degustazione gratuita di
pasta alla norma siciliana. Dio benedica la
Sicilia.
Dopo i quattro gatti in croce incontrati presso questi piccoli padiglioni, ci immergiamo nel caos dei padiglioni maggiori, e devo dire che qui i miei ricordi diventano più fumosi, nonostante siano passati soltanto 4 giorni: la confusione era tale da farmi andare completamente in tilt, code assurde, gente ferma nello stesso punto da almeno 5/6 ore, roba che mi avrebbero portato via con la camicia di forza dopo molto meno, altrettanta gente totalmente spaesata, occhi vacui, stormi di esaltati con tanto di passaporto per collezionare più timbri possibili, vecchietti da sfondamento che ti fanno entrate di cattiveria che manco Super Mario Balotelli nei suoi momenti migliori.
In questo caos primigenio, riusciamo a visitare, vantando massimo un'oretta di coda, ben 9 padiglioni, ovvero
Cile, Romania, Polonia, Mauritania, Maldive, Brasile, Sultanato del Brunei (??),
Nepal, Corea. Questo, in gruppo (
e sicuramente avrò dimenticato qualcosa).
Io, in solitaria grazie al mio pass da giornalista che mi ha permesso di saltare alcune code, sono riuscita ad entrare anche nei padiglioni di
Austria, Emirati Arabi Uniti e
Azerbaigian.
La mia impressione generale? Tutto bello e ben curato, nulla da dire, ma un generale senso di freddezza, di incessante consumismo, e la presenza troppo invadente e costante della tecnologia, in un contesto dove avrebbero dovuto abbondare, invece, le sensazioni a pelle, i profumi, i colori dei vari Paesi.
Mi aspettavo di trovare tavole imbandite secondo gli usi di luoghi lontani e a me sconosciuti, invece ho visto perlopiù monitor con immagini di appetitose cibarie, led, pixel, marchingegni touch di ogni sorta.
Sarò all'antica, sarò retrograda, ma a me, le cose, piace toccarle sul serio, non scorrere un ditino su uno schermo dove mi si mostra ogni ben di Dio ma, quando poi mi viene voglia di assaggiare qualcosa, mi tocca andare in un ristorantino gourmet che costa anche un occhio dalla testa.
Non ci siamo proprio.
Stesso discorso per il
padiglione Zero: interessante, bellissimo l'allestimento della parte iniziale, con i suggestivi cassettini della memoria collettiva, improbabile il resto, tutto plastici e animali finti (
ma allora è una mania?!).
Dopo l'estenuante girovagare tra i padiglioni, ci siamo buttati sulla mostra curata da
Vittorio Sgarbi, "Il tesoro d'Italia": un'oasi di tranquillità in mezzo allo schiamazzo generale.
Bellissime le opere, di artisti meno conosciuti ma anche di mostri sacri della nostra meravigliosa storia dell'arte, tra cui
Tiziano, Mantegna, Ligabue e moltissimi altri, pessimo l'allestimento.
Lo dico, a costo di beccarmi una miriade di "
capra, capra" urlati con schiumante violenza dal Vittorio nazionale.
Non mi capacito di come un esperto di tale levatura abbia potuto sistemare le opere in maniera tanto sbagliata, alcune, di grandissimo pregio, in zone d'ombra pressoché assoluta, altre con faretti puntati senza pietà, con riflessi che hanno reso alcuni tra i dipinti più belli praticamente impossibili da osservare con l'attenzione che meritano.
E il criterio? Non cronologico, né regionale, forse, come direbbero i cugini genovesi, il famoso sistema "
alla belin di cane"? Sempre infallibile, non c'è che dire.
Per concludere il nostro viaggio, siamo approdati allo momento clou della giornata, il bellissimo
Albero della Vita: di grande effetto, per carità, ma non avete visto i miei addobbi natalizi, che riuscirebbero ad oscurare anche l'albero di Central Park a New York. Quindi per impressionarmi ci voleva ben altro.
Tirando le somme su questa Expo, non dico di non essermi divertita, ho visto sicuramente cose belle, assaggiato cibi gustosi e inusuali, trascorso una giornata diversa dal solito, interessante, insomma ne è valsa tutto sommato la pena.
Tuttavia mi aspettavo non di più, ma qualcosa di diverso, di più genuino: più autenticità, meno tecnologia, o perlomeno ben dosata, più amore per le cose semplici, che alla fine sono sempre le migliori.
Non mi sono sentita davvero trasportata in nessuno dei luoghi rappresentati nei padiglioni che ho visitato, non ho avuto la sensazione di compiere un viaggio attraverso il mondo semplicemente passeggiando lungo il decumano,
mi è mancata l'emozione. E se manca quella, manca tutto.