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lunedì 30 novembre 2015

#arte: Il Novese, un territorio da scoprire

Oggi vi voglio parlare di un'iniziativa particolarmente interessante che riguarda il mio amato territorio, quello del Novese, un luogo tanto bello quanto, troppo spesso, ancora in parte sottovalutato.
   Ma torniamo a noi: tenetevi pronti, perché l'inizio del mese di dicembre porterà una bellissima iniziativa dedicata a tutti colori che amano arte, storia e più in generale tutto ciò che è cultura.
   Infatti il Distretto del Novese, in collaborazione con il Tour operator di Torino Oneiros Incoming by Il Mondo in Valigia, in occasione di Dolci Terre di Novi, la grande manifestazione delle eccellenze enogastronomiche che da anni attira nel nostro territorio centinaia di turisti e non solo, ha deciso di realizzare un collegamento con bus-navetta da Novi Ligure verso i due grandi beni culturali del nostro territorio, l'area archeologica di Libarna e il Forte di Gavi, che per l'occasione resteranno aperti dalle ore 10.00 alle ore 16.00 per le visite guidate.


L'appuntamento è per il prossimo 6 dicembre 2015, e la partenza sarà da Movicentro (piazza della stazione) a Novi Ligure alle ore 10.00 per raggiungere l’antica città di Libarna, uno dei più importanti siti archeologici del Piemonte, dove potrete ammirare le tracce dell’antico insediamento pre-romano e romano, in particolare i resti di due isolati, del teatro e dell’anfiteatro.
   A seguire, trasferimento a Dolci Terre a Novi per assaporare le specialità dolciarie, vitivinicole e gastronomiche della zona, come la focaccia Novese De.Co. e la farinata, o ancora assaggiare i piatti tipici della tradizione proposti all'interno di “menù ad hoc”.

Il tour proseguirà nel pomeriggio con il trasferimento a Gavi per la visita all’omonimo Forte, un'imponente fortezza che sorge su una rocca naturale a strapiombo sul borgo antico di Gavi, lungo la via Postumia, che nell'antichità collegava la Repubblica di Genova al Basso Piemonte e alla Lombardia, un raro e pregevole esempio di architettura militare.
   Infine, al termine della visita trasferimento a Novi Ligure entro le ore 17.30.


Il costo dell'itinerario in bus per tutto il giorno ammonterà a 3 euro a persona, per mezza giornata a 1,50 euro a persona, e ricordiamo che Libarna, Forte di Gavi e rassegna enogastronomica presso Dolci Terre hanno ingresso totalmente gratuito. 
   Per informazioni e prenotazioni info@distrettonovese.it oppure oneiros_viaggi@yahoo.it.





#animali: Shiver, la migliore amica di una blogger

Solitamente vi propongo articoli culturali, recensioni, commenti, approfondimenti, insomma, una visione personale di tutto ciò che è "cultura", ma filtrato attraverso competenze e conoscenze di stampo accademico.
   Oggi, invece, voglio fornirvi un nuovo tassello per conoscermi un po' meglio, attraverso uno dei miei amori più grandi, Shiver
   Sì, perché se il cane è il miglio amico dell'uomo, Shiver, splendido esemplare de pestifero samoiedo, è sicuramente la migliore amica della blogger che vi sta scrivendo. 
   Un piccolo tornado di quasi due anni (li compirà il prossimo 10 dicembre), una creatura portatrice di gioa di vivere e di una voglia incontenibile di combinare disastri a profusione, che è entrata a far parte della nostra famiglia poco più di un anno e mezzo fa. 

Si tratta di una razza canina piuttosto sconosciuta ai più, particolarmente affettuosa, che possiede una caratteristica piuttosto anomala per un quadrupede: una spiccata loquacità.
   Infatti tra borbottii, una gamma infinita di modi differenti di abbaiare, versetti anomali e mugolii, esprime una gamma di sentimenti ed emozioni di gran lunga superiore al 99% della popolazione media italiana che incontro quotidianamente. 

Tranquilli, non appartengo alla categoria di psicotici che mettono il cappottino ai cani e tormentano il prossimo descrivendo nei dettagli ogni singola deiezione del proprio amico a quattro zampe, tuttavia non potevo non propinarvi qualche foto della Shiverina, ribelle modella davanti all'obiettivo della mia Reflex.
Ed eccola a voi, da piccola diva e iena impenitente... ;) 














venerdì 27 novembre 2015

#musica: Buon compleanno Jimi Hendrix!

Tutto lo ricordano nel giorno della sua morte, ma si tratta di una tragica circostanza, e non mi garba neanche un po'.
   Così ho deciso di ricordarlo nell'anniversario della sua nascita, in quel lontano 27 novembre 1942, quando la parola ROCK aveva ancora una connotazione fumosa, e la trasgressione era cosa ben poco nota.
   Sto parlando di Jimi Hendrix, of course, Mr. James Marshall Hendrix (Seattle, 27 novembre 1942 – Londra, 18 settembre 1970), IL chitarrista, protagonista di una parabola artistica e musicale tanto breve quanto intensa e significativa, al primo posto della classifica dei 100 migliori chitarristi della storia secondo la prestigiosa rivista musicale Rolling Stone, precedendo artisti del calibro di Eric Clapton e Jimmy Page.

Non servono ulteriori parole per ricordarlo, basta soltanto questo video che, per una come me, che al massimo suona i campanelli, è veramente impressionante (provateci voi a suonare, e anche bene, con i denti!)... Buon ascolto, e buon compleanno Jimi! ;)


giovedì 26 novembre 2015

#arte: Il fumetto in epoca Pop, una forma d'arte contemporanea.

Oggi vi voglio parlare di un fenomeno mondiale che segnò un'epoca, un testo che avevo scritto ai tempi dell'Università per un corso di Grafica Contemporanea, e che ho rispolverato proprio in questi giorni perché considero ancora fortemente attuale.
   Questo viaggio inizia tra gli anni Cinquanta e Sessanta, specialmente negli Stati Uniti, dove si assiste allo sviluppo di numerose tendenze artistiche alternative, che si distaccano marcatamente dalle forme espressive tradizionali.
   Prende campo la Pop Art, una corrente artistica della seconda metà del XX secolo che prende il nome dalla parola inglese “popular art”, ovvero arte popolare, non da intendersi come arte del popolo o per il popolo ma, più puntualmente, come arte di massa, cioè prodotta in serie, ed è una delle più importanti correnti artistiche del dopoguerra.
   L'altro grande fenomeno di massa è il fumetto, che proprio in questi anni viene elevato a vera e propria forma d'arte.


Per quanto riguarda la Pop Art, questo movimento discende direttamente dal graffiante cinismo del Dadaismo e della Nuova Oggettività, ma anche dalla semplicità equilibrata e dalla sintesi cromatica del Suprematismo russo di Malevic.
   La nascita della Pop Art avviene negli Stati Uniti intorno alla metà degli anni ’50, con le prime ricerche di Robert Raushenberg e Jasper Johns, ma la sua esplosione avviene soprattutto nel decennio degli anni ’60, conoscendo una prima diffusione e consacrazione con la Biennale di Venezia del 1964.
   I maggiori rappresentanti di questa tendenza sono tutti artisti americani: Andy Warhol, Claes Oldenburg, Tom Wesselmann, James Rosenquist, Roy Lichtenstein. 
   Una corrente apparentemente passeggera ed effimera, ma che in realtà, a partire dagli anni Novanta del XX secolo, ha avuto nuova vita, con un secondo movimento che va sotto il nome di NeoPop, frantumandosi però in numerosi sottogruppi con diversi rimandi culturali: dal graffitismo urbano al mondo dell’undergound, dall’uso di materiali diversi come plastiche, resine ecc… al mondo dei fumetti giapponesi, dalla urban art al web design, fino a mescolarsi con riferimenti “alti”, letterari o concettuali.
   Tra gli artisti più noti: Jeff Koons, Takashi Murakami, ma anche Gary Baseman, Jenny Holzer o, in Europa, Sigmar Polke, Katharina Fritsch, Gary Hume, Tim Noble.

Caratteristica interessante della Pop Art è che si serviva di oggetti presenti nella vita quotidiana trasformandoli in opere d’arte: la rappresentazione degli hamburger, delle auto, dei fumetti si trasforma presto in merce, in oggetto che si pone sul mercato (dell'arte) completamente calato nella logica mercantile.
   La sfrontata mercificazione dell'uomo moderno, l'ossessivo martellamento pubblicitario, il consumismo eletto a sistema di vita, il fumetto quale unico, residuo veicolo di comunicazione scritta, sono i fenomeni dai quali gli artisti pop attingono le loro motivazioni.
   In altre parole, la Pop Art attinge i propri soggetti dall'universo del quotidiano – in specie della società americana – e fonda la propria comprensibilità sul fatto che quei soggetti sono per tutti assolutamente noti e riconoscibili: poiché la massa non ha volto, l'arte che la esprime deve essere il più possibile anonima: solo così potrà essere compresa e accettata dal maggior numero possibile di persone. In un mondo dominato dal consumo, la Pop Art respinge l'espressione dell'interiorità e dell'istintività e guarda, invece, al mondo esterno, al complesso di stimoli visivi che circondano l'uomo contemporaneo: il cosiddetto "folclore urbano”, che porta con sé dalle bandiere americane di Jasper Johns alle bottiglie di Coca Cola di Warhol, dai fumetti di Lichtenstein alle locandine cinematografiche di Rosenquist.
   Gli artisti di questo movimento hanno svolto un ruolo rivoluzionario, introducendo nella loro produzione l’uso di strumenti e mezzi non tradizionali della pittura come il collage, la fotografia, il cinema, il video e la musica, dalla quale gli stessi Beatles per alcune canzoni hanno trovato ispirazione.


La Pop Art infatti usa il medesimo linguaggio della pubblicità e risulta dunque perfettamente omogenea alla società dei consumi che l'ha prodotta.
   L'artista, di conseguenza, non trova più spazio per alcuna esperienza soggettiva e ciò lo configura quale puro manipolatore di immagini, oggetti e simboli già fabbricati a scopo industriale, pubblicitario o economico.
   Questi oggetti, riprodotti attraverso la scultura e la pittura, sono completamente personalizzati. Nelle mani di un artista pop le immagini della strada si trasformano nelle immagini "ben fatte" dell'arte colta.
   I temi raffigurati sono estremamente vari: prodotti di largo consumo, oggetti di uso comune, personaggi del cinema e della televisione, immagini dei cartelloni pubblicitari, insegne, foto di giornali, riviste.
   L'artista sa di operare all'interno di un contesto sociale, non più caratterizzato dalla netta contrapposizione tra avanguardia e conservazione, ma nell'ambito di una situazione più complessa e intricata in cui coesistono diversi livelli culturali. Porsi al di fuori di questo contesto non è possibile, né avrebbe senso, o avrebbe il senso di una nuova evasione, di un rinchiudersi nuovamente in una ristretta posizione aristocratica: l'artista pop lo sa e accetta di operare dentro il sistema abbandonando la pretesa di una redenzione totale e accettando di lavorare mediante interventi circoscritti dentro situazioni particolari e ben determinate.
   Il denominatore comune a tutti questi artisti è una stessa fondamentale esigenza di realismo, di prendere coscienza della nuova condizione antropologica determinata dallo sviluppo industriale e dai mezzi di comunicazione di massa.
   Ma si tratta di un realismo consapevole della convenzionalità del linguaggio artistico, del filtro che i nuovi strumenti tecnici di rappresentazione pongono tra noi e i dati della realtà.
 
Volendo indicare un precedente storico della pop art, è possibile risalire fino al realismo di Courbet, che si era già dato il compito di rappresentare la vita moderna. Nel catalogo della sua mostra all'Esposizione universale del 1855 l'artista aveva infatti esplicitamente dichiarato: ‟Sapere per potere, questa fu la mia idea. Essere in grado di tradurre i costumi, le idee, l'aspetto della mia epoca, secondo la mia valutazione, essere non solo un pittore, ma un uomo; in una parola, fare dell'arte viva, questo è il mio scopo".                                                                                                          

Anche il Futurismo può essere identificato come un possibile precedente storico della ricognizione urbana condotta dalla Pop Art.
   Infatti il Futurismo è stato un movimento programmaticamente pro-urbano che ha celebrato la città e la folla amplificando l'iconografia della vita moderna proposta dagli impressionisti e dai postimpressionisti.
   Il primo manifesto marinettiano contiene ‟il resoconto di un incidente automobilistico, riportato come un'esilarante esperienza". Occorre aggiungere che i futuristi non si rivolgono alla scena urbana soltanto come a un repertorio tematico, di ordine contenutistico, ma si rifanno soprattutto alle mutate condizioni ambientali per cogliere nuovi procedimenti di formazione dell'arte introducendo le nozioni di coinvolgimento e di simultaneità.


Come già indicato, grande elemento di riferimento della Pop Art fu proprio il fumetto.
   Questo genere di lettura era già diffuso dagli anni ‘40 ma riusciva ad attrarre a sé solo un pubblico di ragazzini: infatti proprio a questi ultimi si riferivano le grandi case editrici fumettistiche, escludendo completamente l’idea di diffondere i fumetti tra un pubblico molto più vasto.
   Grazie all’artista Roy Lichtenstein, che negli anni ‘50-60 ha riprodotto in grande scala vignette tratte da giornali come Dick Tracy e anche da personaggi dei cartoni animati, trasformando le vignette in veri e proprio quadri, questo genere si è diffuso anche tra il pubblico adulto.
   L'artista ha aperto la strada a una nuova considerazione del fumetto da parte della cultura e, in particolare, del mondo dell'arte: con l'artista newyorkese il linguaggio fumettistico, con le sue figure e le parole stereotipate, viene ad assumere un ruolo privilegiato.
   Negli stessi anni Andy Warhol realizzava quadri con immagini di comics e, successivamente, molti altri artisti hanno utilizzato nelle loro opere elementi tratti da questo universo iconico.
   Spesso si è cercato di “sbarazzarsi” di Lichtenstein come di “quello che ingrandisce i fumetti”; adolescente durante la “Golden Era” dei comics, nella maturità l'artista non torna ai racconti a fumetti per un irrazionale richiamo sentimentale, ma in realtà esplora le “moderne mitologie volgari di pathos adolescenziale e di distruzione dell'uomo adulto, con un lessico visivo che ha la potenza dell'espressionismo astratto”.
   In fumetti come “Drowning Girl” o “Ok hot shot”, entrambi del 1963, oppure in “Hopeless” e in “Eddie Diptych”, dello stesso anno, l'artista americano lucidamente condensa l'anonimo e industrializzato repertorio delle immagini prodotte per la comunicazione di massa.                            

Roy Lichtenstein realizzò una sua personale visione dell’America, grazie a una particolare tecnica che si avvaleva del linguaggio puntinato, un metodo usato per realizzare i fumetti, che veniva ottenuto grazie alla sovrapposizione di una retina metallica sopra alla tela.
   Lichtenstein utilizzò questa tecnica non solo per esplorare un altro metodo espressivo ma anche per criticare la tecnica pittorica dell’astrattismo e per trovare una nuova forma artistica che coniugasse arte e cultura popolare.
   Il fumetto non era considerato un’opera d’arte ma era invece visto più come una popolare forma alternativa di comunicare in modo sintetico un racconto.
   Naturalmente le cose in seguito cambiarono e il fumetto divenne anche un’opera d’arte e sicuramente un mezzo espressivo che poteva contenere canoni artistici.
   Fu comunque Lichtenstein ad utilizzarlo per la prima volta in questo senso, benché le sue opere non possano essere paragonate al fumetto.
   Infatti, osservando con attenzione i suoi quadri, si distanziano in modo sostanziale dalla vignetta o dalla tavola del fumetto. Innanzi tutto i suoi disegni sembrano non suscitare alcun sentimento o stato d’animo, a guardarli sembrano distaccati, come se riuscissero a rarefare uno stato d’animo all’infinito, senza bisogno di avere un’immagine successiva, ma raccontando la loro storia dentro all’immagine che rappresentano. In questo sono senso quadri totalizzanti, che contengono una storia dall’inizio alla fine.
   Anche nell'opera di Roy Lichtenstein l'universo quotidiano è sottoposto a un procedimento sorretto da una fortissima intenzione formalizzante.
   L'artista si rivolge ai mezzi di comunicazione di massa e in particolare alle ‛storie' dei fumetti e, più in generale, ai prodotti dell'industria culturale, ma crea uno stacco marcato tra il messaggio di questi prodotti e le immagini che vengono rese, invece, con una definizione asciutta, ironicamente aristocratica della forma.
   Si comprende perciò come un quadro di Lichtenstein, che si presenta in superficie come una mera riproduzione dei comics, finisca in realtà con il riassumere in sé, nel suo contesto circoscritto, una vera e propria ‛storia' delle correnti visive contemporanee. Di qui il largo impiego della ‛citazione' (le riprese testuali da Cézanne, Mondrian, Léger e altri, ma, per quanto riguarda più specificamente il segno, anche da Seurat e da Gauguin, da Van de Velde e dall'Art Nouveau).





Per quanto riguarda l'ambito prettamente fumettistico, un disegnatore che introdusse la Pop Art mescolata al Surrealismo e atmosfere psichedeliche fu Jim Steranko.

   Questi ebbe la grande idea di inserire immagini in collage nelle sue vignette e colori molto accesi e surrealistici che si ispiravano all’arte di Warhol, creando atmosfere uniche e affascinanti; si possono vedere queste tavole negli albi del personaggio della Marvel Nick Fury (anni ‘70-80).
   Molti critici definirono il suo stile come “Zap Art”, cioè un'arte di strada, metropolitana, vicina alla Street Art. 
   Steranko si ispirò ai romanzi di Ian Fleming sull’agente 007, ma in seguito furono i registi dei film sulla spia britannica che vennero influenzati dalle vicende di Nick Fury. 
   

Steranko assorbì e adattò il suo stile alle tecniche di Jack Kirby, uno dei più celebri ed influenti autori di fumetti della storia, che ha collaborato per molti anni per la casa fumettistica Marvel.  

Prolifico e con uno stile riconoscibile a prima vista, divenne il modello per generazioni di autori, grazie all’uso di fotomontaggi (in particolare per gli sfondi cittadini) e il frequente ricorso ai disegni a piena pagina privi di vignette, che occupavano uno, due o addirittura quattro fogli.
   Un fumettista che utilizzò queste tecniche fu Will Eisner,considerato il padre dell’“arte sequenziale” perché reinventò completamente la struttura delle vignette, dei dialoghi e del movimento dei personaggi con i racconti del suo personaggio “The Spirit”.
 
Un altro fumettista che ha sfruttato lo stile della Pop Art è sicuramente Frank Miller, creatore e disegnatore dell’affascinante serie di fumetti “Sin City”, pubblicata dalla “Dark Hours”.
   In questi cartoon non ci sono figure in bianco e nero, ma una vera e proprio lotta tra la luce e le ombre in cui non è presente alcun tipo di sfumatura e dove il bianco è quasi abbagliante e il nero è color pece.



mercoledì 25 novembre 2015

#attualità: Non abbiate timore di esser donne

A tutte le donne, Alda Merini

           Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso             
sei un granello di colpa
anche agli occhi di Dio
malgrado le tue sante guerre
per l’emancipazione.
Spaccarono la tua bellezza
e rimane uno scheletro d’amore
che però grida ancora vendetta
e soltanto tu riesci
ancora a piangere,
poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,
poi ti volti e non sai ancora dire
e taci meravigliata
e allora diventi grande come la terra
e innalzi il tuo canto d’amore.




Voglio commemorare così, con le toccanti e veritiere parole di una delle più grandi poetesse della storia della letteratura nazionale (e non solo), questo 25 novembre, data simbolica per ricordare tutte le vittime della violenza perpetrata contro le donne. 
   Un messaggio che dovrebbe arrivare dritto al cuore ogni giorno, al di là delle date prestabilite, e che voglio lanciare specialmente alle ragazze più giovani, che mi spaventano un po': infatti, guardandomi intorno, ho come l'impressione che, troppo spesso, manchi il rispetto di se stesse, del proprio corpo, dei propri sentimenti come della propria sessualità. 
   Ci si svende al miglior offerente, pensando di ottenere chissà quali privilegi, l'idea di esser grandi, adulte, emancipate, contemporanee o semplicemente sexy e attraenti, ma non è così. 

Perché la violenza sulle donne non è soltanto lo schiaffo in pieno volto o il perpetrarsi di minacce o atteggiamenti da stalker, no. 
   La violenza sulle donne nasce anche dalle più piccole cose, dalla volontà di azzerarsi per compiacere un uomo, di sottomettere la propria volontà a quella di un'altra persona che finge di amarci, la violenza sta in un no che ci viene detto soltanto per il gusto di infliggerci una delusione.
   Basta poco, davvero poco, per entrare in un tunnel di rassegnazione, a entrare in quel pericoloso mood che ci fa dire "Massì, tanto sono tutti così, non soltanto il mio", ma sappiamo benissimo che non è vero. 
   Nel 2015 abbiamo tutti gli strumenti per venirne fuori, per imparare ad amarci, a rispettarci, a ribellarci, a prendere le nostre decisioni in totale autonomia, perché se non lo facciamo noi per prime, chi può farlo altrimenti? 
   Impariamo a leggere quei campanelli d'allarme che facciamo di tutto per ignorare, non accontentiamoci di un uomo solo perché pensiamo di non avere la legittimazione di fare le nostre scelte da sole, e ricordiamoci che non apparteniamo a nessuno, soltanto a noi stesse. 

Non vanifichiamo decenni di lotta contro il pregiudizio, la paura, l'ignoranza e la discriminazione, cerchiamo di non tornare indietro, ma di guardare sempre avanti, a testa alta, senza timori. 
   Ci hanno attaccato addosso etichette scomode, ci hanno violentate nel corpo e nell'anima, ci hanno accusate di ogni peccato fin dall'origine della vita e della storia, ma noi andiamo avanti.
   Madri, figlie, genitrici, amanti, lavoratrici instancabili, insomma, DONNE. 

martedì 24 novembre 2015

#attualità: Roma capoccia, quando l'ironia sconfigge la paura

La Tour Eiffel che precipita nella Senna, le minacce a Papa Francesco, alla nostra splendida Città Eterna al grido di "Prenderemo Roma!",  il terrore e quella che è stata ormai ribattezzata, da tutti i mass media, la "psicosi terrorismo", un altro di quei binomi che ci entreranno in testa come un tarlo: baby squillo, baby prostitute, bomba d'acqua, bomba di neve.
   Ossimori a profusione, anche un po' fastidiosi, alla lunga, ma la stampa è così, spaventosamente tematica, si muove per blocchi, per compartimenti stagni, finché una notizia non fa più audience, e allora sparisce nel nulla, e sotto con la prossima, è una ruota che gira.
   Immagini spaventose, che ci attanagliano in un'angoscia sempre più forte e inesorabile.

Ma, ai titoli di giornale allarmistici e catastrofici, alle maratone televisive e al tam tam ossessivo sul web che assilla milioni di persone ogni giorno, la risposta migliore l'hanno data i romani, con il solito caustico umorismo, gente superba, ironica, gagliarda, che ha saputo rispondere per le rime alle minacce dell'estremismo islamico: "Isis, co le mani quando ve pare", "Se te porti via mi moje, la croce ce l'hai tu a vita", "Nun pijate er raccordo che restate imbottijati", "Tempo mezz'ora diventeno romani e penseno: vabbè ma mo se dovemo mette a tajà capocce? Ma a chi je va... O famo domani", "Ricordateve che nella Ztl s'entra solo dopo le 19", "Ve ce vojo vede coi cammelli co li cammelli sui sampietrini"e, dulcis in fundo, "C'è solo un califfo: Franco", tutte scritte apparse sui muri, cinguettate su Twitter, postate su Facebook, epitaffi lapidari che condannano l'Isis ad una ridicolizzazione che è forse l'arma più efficace.
   Infatti l'eco che è stata data a questa frangia estremista dell'Islam non fa che accrescerne la notorietà e la potenza, andando ad ingrossare le fila di quegli esaltati che raggiungono la Siria per unirsi ad una lotta immotivata e ingiustificata, dettata da follia, ignoranza e violenza, del tutto inaudite.


Quanto ho amato i romani quando ho letto queste scritte, quanto li ho stimati, perché sì, si sono fatti portatori sani di quella che è la vera essenza di noi italiani: gente un po' spaccona, sbruffona e ciarlatana, melodrammatica, provinciale, gente che non ha mai vinto una guerra in vita propria, gente bellicosa a parole, un po' meno nei fatti, gente più portata a fare l'amore piuttosto che la guerra, ma anche gente di cuore, ironica, che sa rinascere dalle proprie ceneri, che ha ancora voglia di scherzare nonostante, guardandosi intorno, venga più voglia di piangere.
   Sarà una sorta di esorcismo della paura, ma funziona: chi l'avrebbe detto di riuscire a farsi una risata parlando proprio di quel terrorismo che sta insanguinando l'Europa?
Insomma, forza Roma,e grazie, per averci donato un sorriso anche quando sembrava impossibile, e per averci dimostrato che, sfoderando un po' di acume e un pizzico di ironia, sappiamo risollevarci e continuare a vivere, nonostante la paura.

lunedì 23 novembre 2015

#libri: Coming soon (II parte)







(A)rieccomi con un altro assaggino dei miei ultimi acquisti, per darvi un'idea delle recensioni in cui potreste imbattervi continuando a seguirmi con assiduità (e un sacco di pazienza, ebbene sì...).

   Tra romanzi di formazione, thriller, attualità, storie più o meno realistiche, saggi e anche qualche quisquilia, non avremo che l'imbarazzo della scelta...
   E questa è soltanto una piccola parte delle new entries della Mansarda, stay tuned! ;)

venerdì 20 novembre 2015

#libri: La scomparsa di Patò, Andrea Camilleri


Inizio questa mia nuova recensione con una premessa: sono una neofita dei romanzi di Andrea Camilleri, non ho mai letto nulla che riguardasse il celeberrimo Commissario Montalbano, e le mie conoscenze su questo autore, fatta eccezione per la sua biografia, si limitano ai volumi "La concessione del telefono", "Il gioco della mosca" e "La scomparsa di Patò".
   Per cui, sfegatati fan, non me ne vogliate.

Oggi vi parlerò proprio de "La scomparsa di Patò", un'opera decisamente sui generis che, forse anche per una sana dose di deformazione professionale, non potevo non apprezzare.
   Infatti, da buona giornalista, la lettura di un libro che contiene pagine di giornale, articoli che contribuiscono allo svolgimento della narrazione, frammenti di verbali e simili non poteva che procurarmi un immenso piacere.



Traendo ispirazione da un passo di "A ciascuno il suo" di Leonardo Sciascia (patriottico, Camilleri cita spesso scrittori suoi conterranei, uno su tutti Luigi Pirandello, conosciuto e ricordato con timore e rispetto reverenziale dallo scrittore appena bambino), l'autore rielabora un fatto realmente accaduto nel 1919, reinventando quasi interamente un vero e proprio dossier che va dal 20 marzo al 28 aprile 1890.

Tra lettere scritte a mano, rapporti giornalieri riservati scritti da Carabinieri e rappresentanti della Pubblica Sicurezza, relazioni alquanto atipiche e molto altro, si snoda una narrazione che non procede per capitoli ma per frammenti, priva di una voce narrante poiché sono i frammenti stessi a raccontarci questa storia tragicomica.
   La vicenda? Subito dopo la rappresentazione del “Mortorio” (la “Passione di Cristo”, opera teatrale del cavaliere d’Orioles) che, a Vigàta, si tiene il Venerdì Santo, il ragioniere Patò Antonio, uomo d'onore e direttore presso la filiale della Banca di Trinacria, minacciato di morte dal commerciante Ciaramiddaro Gerlando, scompare senza lasciare traccia.
   Diverse le ipotesi: da quella attinente a una momentanea perdita di memoria, per cui stava vagando senza la capacità di ritrovare la strada del ritorno, al suo assassinio per ragioni su cui bisogna indagare.
   Murì Patò o s’ammucciò? (Patò è morto o si è nascosto?), questo il dilemma.

Un giallo apparentemente semplice, classico, che non mostra particolari pregi né meriti.
   E invece no.
Perché Camilleri ci vuole mostrare il rovescio della medaglia di quella sua tanto amata Sicilia, il malcostume, la corruzione, la pochezza delle istituzioni che, quando il maresciallo dei Carabinieri e il responsabile della Pubblica Sicurezza, superato il reciproco antagonismo, riescono a raggiungere il bandolo della matassa, decidono di insabbiare il tutto per non portare a galla una verità troppo scomoda e disdicevole, e ancora le manie e i peccatucci del popolo, che nulla sono in confronto alle meschinità della autorità, locali e non.
   Vi dice nulla?
La vicenda sarà anche ambientata nel 1890 ma, dopo 125 belli giusti, è forse cambiato qualcosa? Camilleri ci regala una riflessione politica e sociale sulla realtà contemporanea, e lo fa attraverso le armi più potenti che l'essere umano ha a disposizione: l'ironia, l'intelligenza, quel sottile piacere nel svelare altarini nascosti con tanto zelo, il tutto sorretto da una notevole padronanza di diversi registri linguistici: dal tradizionale stile dalla forte cadenza insulare, tipicamente dialettale, a quello giornalistico (anche qui con varie sfumature, dal giornalismo di denuncia a quello ossequiente, dalla cronaca asettica all'articolo di fondo appassionato), da quello agiografico a quello prettamente burocratico.

Infine, un plauso particolare va alla fortissima caratterizzazione dei personaggi: dall'irreprensibile uomo di famiglia, che poi tanto irreprensibile forse non è, alle donne sensuali e dedite alla casa e alla famiglia, dai mascalzoni immischiati con la Mafia al maresciallo dei carabinieri apparentemente incapace, ma in realtà dedito alla verità più di chiunque altro, dal prefetto corrotto al ruffiano di turno, personaggi di sapore e stampo teatrale che tanto mi ricordano proprio quel genio di Pirandello citato ad inizio articolo.
   Insomma, comicità, velata denuncia sociale, ironia e profonda analisi umana, tutto questo è "La scomparsa di Patò".

giovedì 19 novembre 2015

#musica: Freedom, Pharrel Williams, un inno alla libertà

Freedom                                     
             
Hold on to me
don’t let me go
who cares what they see?
who cares what they know?
your first name is free
last name is dom
we choose to believe
in where we’re from

man’s red flower
it’s in every living thing
mind, use your power
spirit, use your wings
freedom
freedom
freedom
freedom
freedom
freedom

hold on to me
don’t let me go
killers need to eat
don’t let you lope
your first name is king
last name is dom
we choose to believe
in everyone

when a baby first breathes
when night sees sunrise
when the whale hunts in the sea
when man recognize us
freedom
freedom
freedom
freedom
freedom
breathe in

we are from heat
the electric one
does it shock you to see
he left us the sun?
atoms in the air
organisms in the sea
the son and, yes, man
are made of the same things

freedom
freedom
freedom
freedom
freedom
freedom
freedom

                                         
                                                                                          Libertà

Aggrappati a me
non lasciarmi andare
chi se ne frega cosa vedono loro?
chi se ne frega cosa sanno loro?
il tuo nome è Free
il cognome è Dom
abbiamo scelto di credere
da dove veniamo

il fiore rosso dell’uomo
è in ogni essere vivente
mente, usa il tuo potere
spirito, utilizza le ali
libertà
libertà
libertà
libertà
libertà
libertà

tienimi legato a te
non lasciarmi andare
gli assassini hanno bisogno di mangiare
non ti permettono di sperare
il tuo nome è King
il cognome è Dom
abbiamo scelto di credere
in tutti noi

quando un bambino fa il suo primo respiro
quando la notte vede l’alba
quando la balena caccia in mare
quando l’uomo ci riconosce
libertà
libertà
libertà
libertà
libertà
aspirare

veniamo dal calore
quello elettrico
ti sorprende vedere
quello ci ha lasciato il sole?
atomi nell’aria
organismi del mare
il figlio e, sì, l’uomo
sono fatti delle stesse cose

libertà
libertà
libertà
libertà
libertà
libertà
libertà


Solitamente sono piuttosto scettica e critica nei confronti dei cantanti pop e R&B odierni, mi sembrano tutti preconfezionati, le loro canzoni stereotipate, prive di contenuti, al massimo vagamente orecchiabili; tuttavia, quando ho sentito questa canzone, un disperato urlo che inneggia alla libertà, ho distolto l'attenzione da ciò che stavo facendo e mi sono messa ad ascoltare.
   Puro, piacevole sgomento nell'apprenderne l'interprete, Pharrell Williams, che ricordavo per qualche motivetto accattivante ma, principalmente, per "Happy", colonna sonora di quei batuffoli gialli chiamati Minions.

La canzone passava in radio, non ho ascoltato con attenzione le parole del testo, non ho voluto vedere il video, almeno inizialmente, mi sono concentrata soltanto sull'intensità della melodia e, così facendo, mi sono comparse davanti agli occhi, con un realismo e una veridicità impressionanti, vivide scene di violenza, di violazione della libertà e dei diritti fondamentali dell'essere umano, ho associato quell'urlo all'orrore che stiamo vivendo in questi giorni, ho contrapposto quel desiderio di libertà al senso di ingiusta privazione che stiamo subendo a causa di un terrorismo mascherato da fanatismo religioso che, ancor più che sulla violenza, si basa sulla paura, sull'inibizione di tutto ciò che amiamo, la musica, il teatro, la cultura, il divertimento, il puro piacere di vivere un'esistenza che ci guadagniamo ogni giorno, e che vale sempre e comunque la pena di essere vissuta.

Un grido, "Libertà", che mi ha trasportata lontano, in quei maledetti campi dov'è nato il blues, quel "diavolo blu" (sì, perché il termine blues deriva dalla locuzione "to have the blue devils", letteralmente "avere i diavoli blu", che indica una profonda sensazione di tristezza e sconforto) che ebbe origine tra i neri vessati da signori e padroni senza nemmeno un briciolo di umanità e pietà, dove, per sopportare il dolore e la fatica le lacrime non sarebbero bastate, e allora è nata una melodia, eterogenea, discorde, spontanea, senza regole, dove ognuno poteva identificare se stesso come persona, e non come un "negro" buono soltanto per spezzarsi la schiena e soddisfare le perversioni di esseri immondi che fecero della schiavitù una fonte di ricchezza spropositata.

Immagini sovrapposte, frammenti di film, telegiornali, notiziari, brani intensi e struggenti, una gamma infinita di emozioni che potevo aspettarmi da David Gilmour, Peter Gabriel, Fabrizio De André, ma decisamente non da Pharrell Williams.
   Mea culpa, mi ero lasciata ottenebrare dal pregiudizio, ebbene sì lo ammetto: ma c'è sempre tempo per redimersi, parola di scettica cronica e pericolosamente contagiosa. 

mercoledì 18 novembre 2015

#libri: Era di maggio - Antonio Manzini




Rocco Schiavone è un poliziotto decisamente sui generis; se avete in mente investigatori come l'intuitivo Hercule Poirot di Agatha Christie, il paranoico Guido Ferreri di Gianrico Carofiglio o il pungente Salvo Montalbano di Andrea Camilleri, siete fuori strada.
   Perché Rocco Schiavone, vicequestore politicamente scorretto nato dall'abile penna del romanziere, attore e sceneggiatore Antonio Manzini, pur essendo un poliziotto fuma spinelli, è sgarbato, scorbutico al limite dell'umana sopportazione, ha un temperamento burbero e modi spicci.






Un personaggio così drammaticamente reale, vero, un personaggio brutale perché è così che l'ha plasmato il dolore, quello per la perdita della moglie, rimasta uccisa in un agguato, in una realtà dove la tenerezza e l'umanità diventano motivo di debolezza.
   È proprio il suo protagonista principale a rendere così interessante “Era di maggio” (Sellerio, 2015), ultima fatica di Manzini, un noir a tinte fosche ambientato tra la fredda Aosta e una Roma avvolta in ombre troppo scure per un solo uomo.

In questo nuovo capitolo il lettore ritrova con piacere il personaggio di Schiavone, già protagonista dei romanzi “Pista nera” (2013), “La costola di Adamo” (2014) e “Non è stagione” (2015), questa volta al centro di una vicenda che sa di corruzione, di privilegi sociali, di sesso facile e di mafia, immersa nel più totale disincanto, quello che caratterizza l'Italia dei nostri giorni, un affresco storico, sociale ed economico tristemente realistico e contemporaneo.
 
L'innegabile pregio stilistico di Manzini è quello di saper fondere il ritmo serrato di un thriller perfettamente orchestrato a un'ironia pungente e graffiante, in grado di rovesciare i canonici ruoli colpevole/ innocente; a fare da collante, dialoghi veloci, spiazzanti, taglienti come lame affilate.
   Per quanto riguarda la lettura, essendo il quarto romanzo di una serie, “Era di maggio” risulta a tratti faticoso da seguire, se non ci si è nutriti a “pane e Schiavò” per un po' di tempo.
   E, a proposito di serialità, il finale aperto lascia chiaramente intendere la stesura di un nuovo capitolo, un sequel che permetterà di ottenere nuovi frammenti di quell'intricato puzzle che è la vita del protagonista, un antieroe che ci mostra le sue debolezze, ma anche un lato della giustizia non semplice da raccontare, che talvolta sfugge alla canonica legalità, dove bene e male, vendetta privata e giustizia corrono sul filo del rasoio, due rette parallele che, contro ogni convenzione, talvolta si scontrano irrimediabilmente.

"Questo articolo è apparso il 16/11/2015 sulla rivista online Paper Street. Per gentile concessione."
http://www.paperstreet.it/cs/leggi/recensione-era-di-maggio-antonio-manzini.html

martedì 17 novembre 2015

#arte: "De Chirico e Nunziante. Oltre le apparenze", quando l'arte si mescola ad una realtà trascendentale

Oggi vi racconto la mia esperienza presso una delle mostre più interessanti della stagione, che si è appena conclusa a Bra, presso il sontuoso Palazzo Mathis, situato in una piazza affascinante e suggestiva di questa bella cittadina piemontese: sto parlando di "De Chirico e Nunziante. Oltre le apparenze", 50 opere che evidenziano il legame e la continuità tra le poetiche di due grandi artisti, l'uno ideatore della corrente artistica della Metafisica, l'altro suo continuatore e maggiore esponente contemporaneo.
   Due artisti che propongono interpretazioni differenti, accomunate dalla creatività e dalla voglia di raccontare la realtà circostante attraverso una concezione onirica e profondamente evocativa.



Nelle opere di Antonio Nunziante si ripetono, con grandissima inventiva, i principi estetici e i cardini concettuali della pittura di Giorgio De Chirico, tra scenari che valicano l’apparenza fisica e tangibile della realtà, mondi solitari abitati da oggetti enigmatici, dove la presenza umana non viene contemplata, ma sostituita da inquietanti figure, manichini senza volto o busti di sapore classico.
   Sia nelle opere di De Chirico che in quelle di Nunziante la costruzione prospettica è destabilizzante per l'osservatore, il tempo appare congelato e le ombre sono insolite, non corrispondenti agli elementi presenti nei quadri, e si avvicinano a quelle prodotte dalla luce di riflettori teatrali, gli oggetti sono decontestualizzati, i richiami si succedono senza fine.


Ma da che cosa trae origine tutto questo? Sicuramente dal fatto che la Metafisica nasce in un periodo storico pieno d'incertezze quale fu quello della Prima Guerra Mondiale, quando le persone comuni, coloro che detenevano il potere, coloro che si ribellarono e coloro che acconsentirono senza opposizioni, ma soprattutto coloro che cercarono di dare espressione alle loro emozioni ed ideologie tramite l'arte, ebbero reazioni e manifestazioni contrastanti.
   Una versione profonda e unica dell'uomo che si prepara a combattere, o a subire, la guerra, totalmente spersonalizzato, che mi ricorda tanto il nostro presente, specialmente alla luce delle spaventose immagini di una Parigi devastata nel suo intimo, immagini crude e spaventose che rimbalzano sui canali televisivi senza sosta.
   Una tipologia di arte a tratti pessimistica, le cui influenze si possono individuare nella filosofia storica di Nietzsche e nella solennità della mitologia greca, trasposta in una dimensione angosciosa e ambigua.


Un esempio tangibile di questi concetti, che ho potuto osservare personalmente alla mostra di Bra, sta proprio nelle opere facenti parte della serie delle "Piazze d'Italia", caratterizzate da un'architettura classica che non permette di comprendere né il luogo né il momento in cui ci si trova, e che spesso si mescola ad elementi di modernità come le fabbriche, di cui si scorgono le ciminiere, in un continuo richiamo tra passato e presente.
   Tra le caratteristiche che più colpiscono, i molteplici punti di fuga incongruenti tra loro, le campiture di colore piatte, uniformi, prive di sfumature e chiaroscuri, le figure assolutamente statiche, immobili, fuori dal tempo e dallo spazio.
   Analogo discorso vale per le nature morte, dove ai consueti soggetti si aggiungono elementi della classicità greca, come maschere o parti di statue. L'angoscia aleggia in ogni opera.


La differenza tra i due artisti sta principalmente qui: De Chirico ci mostra tutta il malessere che deriva dall'entrata in guerra, una percezione perlopiù fortemente negativa, Nunziante ci propone immagini liberamente interpretabili, spiazzanti, nelle quali l'osservatore può riconoscere le proprie ansie, ambizioni, paure, sogni, pensieri, in uno spazio del tutto soggettivo, ma non necessariamente negativo, anzi.
   Immagini oggettivamente belle, dal tratto grafico pulito e preciso all'inverosimile, dove il colore viene modellato morbidamente nei suoi toni più accesi, lontani dalle scelte cromatiche di De Chirico, immagini che ci dimostrano che anche la bellezza, nella sua esternazione più sontuosa e originale, può dare adito a reazioni contrastanti ma sempre fortemente empatiche e suggestive.

lunedì 16 novembre 2015

#ParoleAColori intervista la #LaMansardaDeiRavatti

Oggi, per la prima volta, vi riporterò un articolo che non è stato scritto d me, ma che mi riguarda da vicino: si tratta di un'intervista che la giornalista professionista Roberta Turillazzi, Caporedattore della rivista culturale online Parole a Colori, ha voluto condurre sulla sottoscritta, ma specialmente sul mio blog, per conoscere meglio i retroscena de "La mansarda dei ravatti", del mio lavoro di giornalista e della mia vita personale, il tutto all'interno della rubrica "Intervista alla blogger".
   Un'intervista divertente, ironica, che vi aiuterà a conoscere un po' meglio la "testina" che sta dietro agli articoli che vi propino quotidianamente... ;)



Un blog politematico, dove la giornalista freelance Arianna offre una prospettiva critica sul mondo

Intervista alla blogger | La mansarda dei ravatti

Arianna Borgoglio è una giornalista freelance 26enne dalle mille passioni. Tra queste ci sono sicuramente la scrittura e la lettura, insieme alla storia dell’arte, alla cucina intesa come amore per il buon cibo più che predisposizione a star dietro ai fornelli -, ai viaggi e alla musica.


In questa intervista ci parlerà in veste di blogger, raccontandoci com’è nato il suo La mansarda dei ravatti, cosa significa di preciso il nome, come si vede in futuro e molto altro ancora.


Ciao Arianna. Raccontaci prima di tutto qualcosa di te. Come ti descriveresti usando solo poche parole?

Sono una giornalista freelance di 26 anni, ho una Laurea in Conservazione dei Beni Culturali e una in Informazione ed Editoria, entrambe conseguite all’Università degli Studi di Genova. 
   Sono una ragazza testarda e determinata, amante di tutto ciò che si lega al mondo della cultura, ma non disdegno nemmeno cose più “terra terra”, come un bel piatto di agnolotti o di trenette al pesto.

Come e quando è nata l’idea per il blog?

In effetti l’idea di aprire un mio spazio online mi frullava in testa già da un po’, ma la spinta decisiva a mettere nero su bianco i miei mille interessi me l’ha data qualche mese fa una carissima amica. 
   Ed eccomi qui, oggi.

Perché hai deciso di cimentarti in quest’impresa? Avevi già delle esperienze analoghe alle spalle oppure questa è la tua “prima volta”?

Prima di tutto per il bisogno di esprimermi, una necessità che ho sempre avvertito fin dalla più tenera età, e poi per dar libero sfogo alla mia passione più grande, la scrittura. 
   A chi fa il mio mestiere nella vita (il giornalista, ndr) capita spesso di dover rispettare vincoli precisi, quando si tratta di scrivere, dalla lunghezza dei pezzi allo stile. Se il pensiero resta sempre assolutamente libero, l’idea che i giornalisti possano scrivere ciò che vogliono come vogliono non potrebbe essere più lontana dalla realtà. 
   Per questo, il pensiero di realizzare un mio spazio online completamente libero e personale era troppo allettante. Si tratta della mia prima volta in veste di blogger, ma ho accumulato diversi anni di esperienza come giornalista e web content editor.

Quello che colpisce, quando si arriva da te, è prima di tutto il nome del blog, “La mansarda dei ravatti”. Vuoi raccontarci qualcosa di più? Perché l’hai scelto? E cosa sono, di preciso, i ravatti?

Il merito, in questo caso, è mio soltanto in parte: infatti il nome del blog è nato in società con mia madre, una persona estremamente fantasiosa e creativa, un vero e proprio vulcano di idee. 
   Ero alla ricerca di un nome particolare, in grado di incuriosire gli utenti del web, magari non comprensibile di primo acchito ma che per questo facesse nascere il desiderio di saperne di più.    Oltre a questo, volevo qualcosa che trasmettesse una certa familiarità, l’idea di un rapporto intimo e amichevole tra blogger e lettori. 
   Così è nato “La mansarda dei ravatti”. La parola mansarda è di facile comprensione, e rimanda alla collocazione della mia camera, il mio quartier generale. Ravatti, invece, – e qui gli amici genovesi e basso-piemontesi mi perdoneranno la spiegazione – è un termine dialettale che indica un insieme di cose non precisate, piccoli oggetti che possono celare, talvolta, qualche piccolo ma prezioso tesoro, proprio come accade nel mio blog.



Quali pensi che siano le maggiori difficoltà di gestire un blog?

Sicuramente il tempo a disposizione, che spesso scarseggia. 
   E poi anche la difficoltà di trovare quel giusto compromesso stilistico e contenutistico che permetta di coinvolgere un pubblico il più eterogeneo possibile, riuscendo magari anche a fidelizzarlo nel tempo.

Il tuo è quello che si definisce uno spazio online politematico. Ti occupi di libri, arte, cinema, viaggi e altro ancora. Non hai paura che così il tuo blog risulti dispersivo? Che non attiri un pubblico preciso ma tutti e nessuno?

Non avrei mai potuto fare diversamente, perché il mio blog deve rispecchiarmi in toto, esprimere appieno le mie passioni, i miei interessi, le mie idee. 
   A dire il vero non ho paura che risulti dispersivo perché, se è vero che le tematiche sono variegate, è la mia impronta stilistica ed emotiva, riconoscibile e tangibile, a fare da fil rouge e da collante.

C’è un tema in particolare di cui ti piace scrivere, o davvero sei multiforme come sembrerebbe a una prima occhiata?

Nutro un profondo interesse per tutti gli ambiti dei quali mi occupo tuttavia, se proprio dovessi fare una scelta, probabilmente punterei sulla letteratura. 
   L’amore per i libri, per le pagine che hanno quell’odore magico di carta e inchiostro, il contatto con il “feticcio-libro” che mi porta a snobbare un po’ gli e-book, è una passione viscerale che dura ormai da 22 anni, e continua a crescere giorno dopo giorno.

Libro attualmente sul comodino?

Comodino? Quale comodino? Una volta era visibile, ormai è letteralmente sommerso dai libri, che stanno prendendo il sopravvento nella mia stanza. 
   Scherzi a parte, al momento sto leggendo un giallo davvero gustoso, “Era di maggio” di Antonio Manzini. Non ho preferenze di genere, sono una lettrice decisamente onnivora.

Meglio un film al cinema oppure uno sceneggiato comodamente sdraiata sul divano?

Alterno cinema e tv, a seconda di come mi sento in quel momento. 
   In linea di massima, comunque, i film che mi interessano di più preferisco vederli al cinema il primo giorno di programmazione, mentre il divano di casa diventa il luogo ideale per godermi soprattutto le serie tv.

Il viaggio che non hai ancora fatto ma che prima o poi intraprenderai.


Amo molto viaggiare, i miei itinerari sono sempre curati nei minimi dettagli e prevedono diverse fermate in luoghi d’interesse storico-artistico. 
   Prediligo sempre la nostra splendida penisola, ma la meta per eccellenza, quella che spero di raggiungere il prima possibile, è sicuramente la Grecia. 
   Sto mettendo da parte un gruzzoletto per concedermi, insieme alla mia dolce metà, un viaggio che tocchi i punti più importanti di questa terra suggestiva, da Atene al Peloponneso, senza dimenticare le isole, Santorini, Kos, Creta, Mykonos. Non c’è nulla di più affascinante e meraviglioso del Mediterraneo, che sa sedurmi e conquistarmi ogni volta.



Nella vita sei una giornalista freelance. Come si conciliano le tue due anime, professionista della comunicazione e blogger? E pensi di far parte della piccola percentuale di fortunati che possono vivere delle loro passioni (nel tuo caso la scrittura) e non dedicargli solo ritagli di tempo?

Mantenermi è una parola grossa, però senza dubbio sono riuscita a fare della mia passione per la scrittura e l’informazione un mestiere a tutti gli effetti. 
   Sono Web Content Editor per numerosi siti, caporedattore di una rivista culturale online dove mi occupo, manco a dirlo, della sezione libri, e giornalista freelance. 
   La competenza professionale mi aiuta moltissimo anche nell’ambito del blog: i miei capisaldi restano la ricerca di fonti attendibili, la costanza e la serietà nel lavoro, nella stesura, nella pubblicazione dei pezzi, pur non avendo, in questo caso, vincoli.

Oggi scrivere un blog è diventata un po’ una moda. Cosa deve avere, secondo te, un blog per avere successo? Per distinguersi dalla massa degli altri?

Credo che la passione sia fondamentale: quando scrivi di cose che ami, il lettore lo percepisce ed è invogliato a seguirti. 
   Lo stile dev’essere corretto ma al contempo personale. E, non da ultimo, un altro fattore fondamentale: il blog è sì uno spazio personale, ma è pubblico e quindi aperto e rivolto a tutti. 
   Per me è importante non cedere alla tentazione, purtroppo oggi molto diffusa, di autocelebrarsi a ogni costo – più contenuti di qualità, meno foto ammiccanti.

E cosa proponi tu, di particolare e a suo modo unico?

Io propongo una lettura critica, personale ma comunque calibrata, perché frutto di anni di studio universitario e non solo, di fatti, eventi, avvenimenti, insomma di tutto ciò che riguarda il variegato universo della cultura umanistica. 
   E poi uno spazio dove chiunque può dire la sua, navigando in mille direzioni, ma presentando sempre una critica ben motivata e supportata da una mentalità curiosa e aperta.

Alcuni blogger, grazie ad idee di successo e passione, sono riusciti a farsi notare da case editrici anche importanti oppure testate giornalistiche ed avviare così una collaborazione (o scrivere un libro). Uno su mille ce la fa, oppure è una possibilità concreta? Sogni qualcosa di simile, oppure il tuo blog ti basta?

Non proprio uno su mille, ma di certo non capita tutti i giorni. 
   Ovviamente il sogno nel cassetto c’è, e anche l’idea di un possibile libro, ma il tutto è in fase assolutamente embrionale. 
   L’ambizione e la voglia di mettermi in gioco non mi mancano, così come gli obiettivi, per cui staremo a vedere che succederà, sono ottimista in questo senso.

E concludiamo con LA domanda: che progetti hai per il tuo blog? Come lo vedi tra 12 mesi e dove pensi che possa arrivare?


Come mi vedo tra dodici mesi? Be’, sicuramente trasferita dalla mia attuale mansarda a un attico in pieno centro dotato di tutti i comfort , come minimo.


Ed ecco il link all'intervista che vi ho appena riportato sopra: http://paroleacolori.com/intervista-alla-blogger-la-mansarda-dei-ravatti/



venerdì 13 novembre 2015

#arte: il MUDEC di Milano, un viaggio alla scoperta dell' "altro"

Concludo oggi il ciclo di articoli dedicati al MUDEC, il Museo delle Culture di Milano, del quale vi avevo già parlato in occasione delle mostre su Barbie, la bambola più iconica al mondo, e sul grande artista Paul Gauguin.
   Oggi vi voglio raccontare qualcosa sul Museo in sé, un progetto che ha preso vita quando il Comune di Milano, nel 1990, ha acquistato la zona ex industriale dell'Ansaldo per destinarla poi ad attività culturali. Infatti le fabbriche, ormai dismesse, sono state trasformate in laboratori, studi e nuovi spazi creativi.
   La gestione, come si legge sullo stesso sito del MUDEC, prevede una formula di partnership tra pubblico e privato che vede insieme il Comune di Milano e 24 Ore Cultura - Gruppo 24 Ore.


Visitando questo interessante e suggestivo Museo, avrete la possibilità di conoscere a fondo il patrimonio etno-antropologico della città di Milano, composto da oltre 7 mila opere d'arte, oggetti d'uso comune appartenenti ad antiche civiltà, tessuti e strumenti musicali provenienti da tutti i continenti, mostre internazionali e iniziative a cura delle comunità internazionali presenti sul territorio milanese.

Impressionante anche la stessa struttura del MUDEC: un edificio futuristico, caratterizzato da corpi dalle forme squadrate rivestiti di zinco e da una struttura in cristallo, che colpisce l'immaginazione del visitatore anche grazie alla sua hall centrale dalla forma totalmente libera, con una corte interna dalla sagoma a fiore, una piazza coperta concepita come punto d'incontro ideale fra le varie culture.


Per quanto riguarda la collezione etnografica, la cui formazione risale all'Ottocento, è il frutto di oltre duecento anni di donazioni di missionari, esploratori, studiosi e collezionisti milanesi.
   Le più antiche sono i lasciti a diversi enti pubblici del luogo, come ad esempio il Museo Patrio Archeologico di Brera, il Museo Artistico Municipale e il Museo di Storia Naturale, mentre le più recenti sono giunte in loco con la realizzazione del MUDEC.
   Il patrimonio delle Civiche Raccolte di Asia, Africa, America e Oceania è il cuore pulsante del Museo delle Culture, è formato da oltre 7 mila oggetti che coprono un arco cronologico che va dal 1000 a.C. fino al Novecento. 




INFO E PRENOTAZIONI: 

  • Infoline e prevendita: tel. 02 54917, sito www.ticket.it/mudec
  • Orari: lunedì 14.30-19.30/ mar-mer-ven-dom 9.30-19.30/ giovedì e sabato 9.30-22.30 (il servizio di biglietteria chiude un'ora prima delle chiusura del Museo)
  • Bistrot: tutti i giorni 7.00-19.30/ giovedì e sabato 7.00-22.30/ tel. 02 84293706/ email: bistrot@mudec.it
  • Ristorante: tutti i giorni 12.00-14.30/ 19.30-23.30/ tel. 02 84293701/ email: restaurant@mudec.it
  • Design Store: lunedì 14.30-19.30/ mar-mer-ven-dom 9.30-19.30/ giovedì e sabato 9.30-22.30/ tel. 02 84293707/ email: designstore@mudec.it
  • Parcheggio a pagamento: aperto h24

Inoltre, fino al 21/02/2016 è possibile visitare la mostra "A beautiful confluence. Anni e Josef Albers e l'America Latina", un tripudio di tessuti, litografie, pitture, oggetti di design di questi due artisti che si conobbero in Germania, presso la famosa scuola d'arte del Bauhaus, poi obbligati all'esilio negli Stati Uniti dal Terzo Reich.
   Attratti dal fascino del Messico, dei tesori Mauìya e Inca, approfondirono la conoscenza di quelle antiche culture, dove "l'arte era ovunque", come asserivano loro stessi.
   Da qui nacque una meravigliosa collezione di antichi manufatti, che diede origine alla Josef e Anni Albers Foundation, ospitata in parte al MUDEC grazie al contributo del collezionista italiano Federico Balzarotti.


  • Infoline: 02 54917/ www.mudec.it
  • Orari: lun 14.30-19.30/ mar-mer-ven-dom 9.30-19.30/ giovedì e sabato 9.30-22.30
  • Biglietti: ingresso con biglietto della Collezione permanente 


giovedì 12 novembre 2015

#film: Snoopy & Friends, il film dei Peanuts

Premetto che questa NON sarà una recensione oggettiva, contrariamente a quanto vi ho proposto fino ad oggi. 
   No, questa sarà una recensione accecata dall'amore per le noccioline, per quei Peanuts che mi accompagnano da 26 anni, donandomi un sorriso e un pensiero positivo pressoché quotidianamente.

Quando, lo scorso anno, ho saputo che sarebbe uscito nelle sale cinematografiche un lungometraggio dedicato al piccolo, grande mondo nato dalla fantasia di quel geniale poeta che fu Charles M. Schulz, devo dire che le mie reazioni sono state contrastanti: da un lato l'attesa, simile a quella di un bimbo di 5 anni la notte di Natale, un'attesa emozionata e spasmodica, che da adulti si prova ben raramente.
   Dall'altro, il timore di una delusione cocente, come sempre quando si va a toccare ciò che più amiamo, fin dalla più tenera età.

Devo dire che, appena ho visto i primi fotogrammi del film, mi sono dovuta ricredere, e i miei timori si sono sciolti come neve al sole. Standing ovation per il regista, Steve Martino, che è riuscito a rendere alla perfezione, sul grande schermo e con la tecnica del digitale, tutta la poesia e la bellezza di questi personaggi, conservandone anche il tratto grafico distintivo, al punto da faticare a distinguere le immagini sullo schermo da quelle sulla carta stampata (bellissimo il confronto tra le due versioni, durante lo scorrimento dei titoli di coda). Nessuna esasperata modernità, niente di gratuito o fuori luogo.

In effetti, il fatto che il film sia nato da un'idea del figlio di Charles M. Schulz, Craig, e che sia stato scritto da quest'ultimo e da Bryan, il nipote di Charles, poteva costituire, già di per sé, una garanzia, ma io sono come San Tommaso, si sa: ho dovuto toccare con mano, e non sono rimasta affatto scottata, anzi.

Ma arriviamo a parlare del film: innanzitutto, dal punto di vista prettamente visivo, la pellicola è un qualcosa di bellissimo, Bello, oggettivamente (stavolta posso dirlo!) bello, dai colori alla grafica, fino alle ambientazioni (una su tutte il paesaggio innevato, sarà che io sono una fanatica del Natale...).
   Spettacolari anche le espressioni "piatte" dipinte sul volto di Charlie, Snoopy e amici, che ricordano in toto l'opera di Schulz, come il fatto che i pensieri dei personaggi siano "a fumetti", racchiusi dalle classiche "nuvolette", o ancora che, di tanto in tanto, si affaccino sulla scena onomatopee e altri segni grafici tipici del mondo dei comics, come il volo tratteggiato di Woodstock.


Anche la caratterizzazione dei personaggi stessi è magistrale, e a suo modo rassicurante: Charlie Brown è sempre timido e pasticcione all'inverosimile, Snoopy sempre ossessionato dal Barone Rosso, Lucy inviperita q.b., Sally innamorata, Linus filosofo in erba, e via così.
   E non sono rimasta poi così sconvolta, come è accaduto a molti altri utenti del web, nel rendermi conto che, finalmente, dopo più di 50 anni, la ragazzina dai capelli rossi ha un volto.
   Era ora, sono più di vent'anni che voglio vederla in faccia, questa fantomatica ragazzina, e volete mettere la soddisfazione di vedere un Charlie Brown che, preso il coraggio a quattro mani, finalmente riesce a rivolgere la parola alla sua amata, ricambiato? La più grande rivincita dei nerd, non c'è che dire, un momento epico nella storia del fumetto.
 
Perché, in fondo, non c'è frase più vera di quella, detta e stradetta, che asserisce che "Charlie Brown è tutti noi".
   E proprio per questo la semplicità malinconica e tenera dei Peanuts riesce a coinvolgerci così profondamente, riesce a trasmettere, a pelle, l'euforia di un brachetto dotato di una fervida immaginazione, l'insicurezza di un ragazzino innamorato, la finta prepotenza di una bambina un po' spavalda, l'intelligenza sproporzionata di un bimbo che, nei momenti di indecisione, si attacca alla sua coperta, morbido scudo protettivo, e attende con fiducia l'arrivo del Grande Cocomero.


Fatto sta che (avrò dei problemi, ma in fondo chi non ne ha?) sono uscita dal cinema con un sorriso stampato sulla faccia, e gli occhi lucidi dalla commozione, perché vedere Snoopy e tutti gli altri "vivi", animati, proprio di fronte a me, mi ha fatto uno strano effetto: è stato come ritrovare "in carne e ossa" un vecchio amico di penna, la concretizzazione di un legame affettivo che mi unisce alle pagine di quello che, per me, è IL fumetto, in un film che sprizza amore per i Peanuts e Schulz da tutti i pori, esattamente come l'avrei voluto se avessi potuto girarlo io stessa, e infarcito di tutte le citazioni più belle e significative delle strisce dagli anni Cinquanta al Duemila (non manca proprio nulla, compreso il banchetto di consulenza psicologica di Lucy e l'incubo del lancio della palla da rugby alla quale la stessa Lucy sottopone quotidianamente il povero Charlie Brown, gli aquiloni di Charlie Brown continuano a non volare e i capolavori letterari di dubbio gusto scritti da Snoopy iniziano sempre con "Era una notte buia e tempestosa..."...).

E ora lancio un appello: VI PREGO, REALIZZATE UNA SERIE TV, ALMENO IN 10 STAGIONI, SONO GIà IN PIENA CRISI DI ASTINENZA DA PEANUTS!